Una delle cose più belle degli ultimi album di Mango è un suo procedere attraverso un vedere in trasparenza che significa dare sempre più profondità alle cose della vita. La sua poesia poi è una prova di questo: cos’è infatti la poesia se non un guardare le cose per coglierne l’anima segreta, quella che esige attenzione e riconoscimento?
Questo vedere in trasparenza ha due effetti: il primo, come ho già detto, è cogliere qualcosa che non è immediatamente percepibile; il secondo è una dilatazione delle proprie profondità, della propria anima, sia in chi scrive (e canta) sia in chi legge (e ascolta).
Più che dilatazione della propria interiorità è dilatazione del nostro sguardo sulla propria interiorità. Infatti l’anima è già di per sé un “luogo” dai percorsi interminabili, come dice Eraclito: “I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profondo è il discorso che le appartiene”, e ancora: “All’anima tocca un discorso che accresce se stessa”. Dunque, il destino dell’anima è la sua infinita profondità, che cerca un discorso, una parola che diventa percorso “senza fine”. Per questo la frase “E’ destino d’autore il cammino”, esprime una etica, cioè un orientamento nei propri giorni, in cui la meta è la stessa via che si sta percorrendo.
Questa ampiezza dell’anima è testimoniata anche da Sant’Agostino: lui la chiama memoria, intesa non come semplice ricordo del passato e degli eventi personali. E’ qualcosa che va al di là del personale, infatti: “Grande è questa potenza della memoria: c’è qualcosa che fa paura, mio Dio, in questa sua profonda, infinita complessità… Eccoli, i campi e gli antri e le caverne innumerevoli della mia memoria… ci entro dentro, anzi, quanto è possibile, né vi trovo limite, mai”.
Siamo dunque in quella regione in cui non si sa “se tutto questo è un confine/ o uno spazio sempre nuovo con te”: è lo scrivere dentro un paragrafo del cielo, “quel piccolo infinito/ che non è mai finito con te”. E’ il fare spazio alla dismisura del mondo, una dismisura che però corrisponde alla dismisura dell’anima e questa corrispondenza permette lo sguardo “da dentro”, alla ricerca di una interiorità che non è solo nella nostra testa ma anche nelle cose: è anche la “loro” anima. In fondo anche Baudelaire scriveva in Corrispondenze:
E’ un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri;
e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.
E Stevens scorgeva in questa interiorità delle cose e del mondo addirittura il loro “angelo necessario”:
Sono l’angelo necessario della terra,
poiché nel mio sguardo vedete la terra nuovamente.
E allora, in questo tempo dove ci stiamo rendendo conto della insostenibilità di un rapporto con il creato basato sullo sfruttamento e sul profitto, il vero sogno “sostenibile” è cercare l’albero delle fate “che cresce forte come un mantello/ in cui riavvolgo, in me, questo e quello”. Le cose attorno a noi esigono attenzione e riconoscimento, lanciano un appello per venire accolte: intuire questo appello è opera di sensi “gravidi di realtà”, rispondervi è opera di un cuore aperto al senso della vita (e disposto anche a lasciarsi ferire!).
E’ così che le profondità della nostra anima diventano le pagine su cui si riscrive la storia del mondo e delle cose, si aprono paragrafi che raccontano di “acqua torbida” divenuta “miracolo di onestà”, di “un’eterna malinconia” che diventa “una bella di notte/ che si risveglia principessa”. Viene cioè acquisita la capacità di ricominciare, di rinunciare a ciò che si sa già, di distaccarsi dalle proprie realizzazioni e fallimenti: capacità di ricominciare che significa il puro “sorprendere l’immenso” del semplice esserci delle cose, della gratuità del loro darsi a noi.
Questa prospettiva può sembrare (e in certo senso lo è) vertiginosa: può sembrare che il terreno ci manchi sotto i piedi, che la vita ci scappi di mano a causa della sua proteiforme bellezza. E’ forse perché non abbiamo fiducia nella nostra immaginazione e fantasia: non è forse questione di fantasia dire: “Comprerò le stelle/ e comprerò anche quelle/cadute senza due innamorati/ che si scambiavano i loro fiati”? Oppure dire: “non esiste” questo e quello, non esiste nulla, finchè “forse esisti tu”? E di esempi del genere se ne potrebbero fare infiniti…
In verità, la fantasia, l’immaginazione sono a volte più reali di ciò che abitualmente chiamiamo realtà: a volte l’educazione, l’etica, l’ambiente, le necessità, ci vorrebbero ridurre al “principio di realtà”, che è solo una convenzione sociale e che fa molto comodo a chi ha il potere (politico, economico, militare) poiché lo mette in grado di confidare nel conformismo del pensiero e dunque di manipolare i cuori e i destini delle persone. Al potere fa invece paura la fantasia, l’immaginazione, quello sguardo che riesce a vedere da dentro la fine delle poesie, che riesce a “stare al centro di sé”. Perché vedere da dentro la fine delle poesie significa essere capaci di vedere l’impossibile fine della Poesia, il suo immenso: la fine delle poesie è bellissima perché, per quanto le parole di una poesia siano belle ed esatte, non riusciranno mai ad esaurire la Poesia che è sempre “oltre”. Quindi quel punto che pone fine a una poesia (ed è anche il potenziale inizio di un’altra) è quasi una sacra sospensione del tempo per offrire il nostro devoto tributo al Silenzio. E’ tutto questo, di nuovo, è possibile vederlo solo “da dentro”. Leopardi scriveva: “ All’uomo sensibile e immaginoso, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo senso doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi il suono di una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di oggetti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione”. L’immaginazione è dunque anche una lente attraverso cui si produce uno “strabismo” della sensazione, un vedere doppio, un vedere eterodosso o eretico rispetto alle convenzioni e alle convenienze del “principio della realtà”.
Quindi, tanta fantasia a tutti!
P.S. Io, come penso tutti, cerco degli occhi, uno sguardo che dica nel silenzio: "è bellissimo da dentro quello che sei", uno sguardo stellare non da immaginare ma da cui essere immaginati e poi "lasciati con questa metà di me".
Questo vedere in trasparenza ha due effetti: il primo, come ho già detto, è cogliere qualcosa che non è immediatamente percepibile; il secondo è una dilatazione delle proprie profondità, della propria anima, sia in chi scrive (e canta) sia in chi legge (e ascolta).
Più che dilatazione della propria interiorità è dilatazione del nostro sguardo sulla propria interiorità. Infatti l’anima è già di per sé un “luogo” dai percorsi interminabili, come dice Eraclito: “I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profondo è il discorso che le appartiene”, e ancora: “All’anima tocca un discorso che accresce se stessa”. Dunque, il destino dell’anima è la sua infinita profondità, che cerca un discorso, una parola che diventa percorso “senza fine”. Per questo la frase “E’ destino d’autore il cammino”, esprime una etica, cioè un orientamento nei propri giorni, in cui la meta è la stessa via che si sta percorrendo.
Questa ampiezza dell’anima è testimoniata anche da Sant’Agostino: lui la chiama memoria, intesa non come semplice ricordo del passato e degli eventi personali. E’ qualcosa che va al di là del personale, infatti: “Grande è questa potenza della memoria: c’è qualcosa che fa paura, mio Dio, in questa sua profonda, infinita complessità… Eccoli, i campi e gli antri e le caverne innumerevoli della mia memoria… ci entro dentro, anzi, quanto è possibile, né vi trovo limite, mai”.
Siamo dunque in quella regione in cui non si sa “se tutto questo è un confine/ o uno spazio sempre nuovo con te”: è lo scrivere dentro un paragrafo del cielo, “quel piccolo infinito/ che non è mai finito con te”. E’ il fare spazio alla dismisura del mondo, una dismisura che però corrisponde alla dismisura dell’anima e questa corrispondenza permette lo sguardo “da dentro”, alla ricerca di una interiorità che non è solo nella nostra testa ma anche nelle cose: è anche la “loro” anima. In fondo anche Baudelaire scriveva in Corrispondenze:
E’ un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri;
e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.
E Stevens scorgeva in questa interiorità delle cose e del mondo addirittura il loro “angelo necessario”:
Sono l’angelo necessario della terra,
poiché nel mio sguardo vedete la terra nuovamente.
E allora, in questo tempo dove ci stiamo rendendo conto della insostenibilità di un rapporto con il creato basato sullo sfruttamento e sul profitto, il vero sogno “sostenibile” è cercare l’albero delle fate “che cresce forte come un mantello/ in cui riavvolgo, in me, questo e quello”. Le cose attorno a noi esigono attenzione e riconoscimento, lanciano un appello per venire accolte: intuire questo appello è opera di sensi “gravidi di realtà”, rispondervi è opera di un cuore aperto al senso della vita (e disposto anche a lasciarsi ferire!).
E’ così che le profondità della nostra anima diventano le pagine su cui si riscrive la storia del mondo e delle cose, si aprono paragrafi che raccontano di “acqua torbida” divenuta “miracolo di onestà”, di “un’eterna malinconia” che diventa “una bella di notte/ che si risveglia principessa”. Viene cioè acquisita la capacità di ricominciare, di rinunciare a ciò che si sa già, di distaccarsi dalle proprie realizzazioni e fallimenti: capacità di ricominciare che significa il puro “sorprendere l’immenso” del semplice esserci delle cose, della gratuità del loro darsi a noi.
Questa prospettiva può sembrare (e in certo senso lo è) vertiginosa: può sembrare che il terreno ci manchi sotto i piedi, che la vita ci scappi di mano a causa della sua proteiforme bellezza. E’ forse perché non abbiamo fiducia nella nostra immaginazione e fantasia: non è forse questione di fantasia dire: “Comprerò le stelle/ e comprerò anche quelle/cadute senza due innamorati/ che si scambiavano i loro fiati”? Oppure dire: “non esiste” questo e quello, non esiste nulla, finchè “forse esisti tu”? E di esempi del genere se ne potrebbero fare infiniti…
In verità, la fantasia, l’immaginazione sono a volte più reali di ciò che abitualmente chiamiamo realtà: a volte l’educazione, l’etica, l’ambiente, le necessità, ci vorrebbero ridurre al “principio di realtà”, che è solo una convenzione sociale e che fa molto comodo a chi ha il potere (politico, economico, militare) poiché lo mette in grado di confidare nel conformismo del pensiero e dunque di manipolare i cuori e i destini delle persone. Al potere fa invece paura la fantasia, l’immaginazione, quello sguardo che riesce a vedere da dentro la fine delle poesie, che riesce a “stare al centro di sé”. Perché vedere da dentro la fine delle poesie significa essere capaci di vedere l’impossibile fine della Poesia, il suo immenso: la fine delle poesie è bellissima perché, per quanto le parole di una poesia siano belle ed esatte, non riusciranno mai ad esaurire la Poesia che è sempre “oltre”. Quindi quel punto che pone fine a una poesia (ed è anche il potenziale inizio di un’altra) è quasi una sacra sospensione del tempo per offrire il nostro devoto tributo al Silenzio. E’ tutto questo, di nuovo, è possibile vederlo solo “da dentro”. Leopardi scriveva: “ All’uomo sensibile e immaginoso, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo senso doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi il suono di una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di oggetti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione”. L’immaginazione è dunque anche una lente attraverso cui si produce uno “strabismo” della sensazione, un vedere doppio, un vedere eterodosso o eretico rispetto alle convenzioni e alle convenienze del “principio della realtà”.
Quindi, tanta fantasia a tutti!
P.S. Io, come penso tutti, cerco degli occhi, uno sguardo che dica nel silenzio: "è bellissimo da dentro quello che sei", uno sguardo stellare non da immaginare ma da cui essere immaginati e poi "lasciati con questa metà di me".