Questa canzone declina la cifra dell'interiorità, dimensione di tutto questo album, in un modo inedito: l'interiorità delle cose e con le cose. E' come se ciò che noi chiamiamo interiorità, anima, non fosse limitata al perimetro della nostra epidermide o della nostra scatola cranica, ma fosse anche il dietro e il dentro delle cose. Certo, questa è una “visione in trasparenza” che non appartiene a un atteggiamento utilitaristico ma solo a uno sguardo poetico che si posa sulle cose, volendole vedere “con i vestiti e senza”, e che si sente rispecchiato dallo sguardo delle cose.
Forse quella “vita che mi va” è una vita in cui si deve imparare non a aggiungere cose a cose, ma a togliere via il superfluo fino a cogliere che “in me c'è un vuoto così d'addio” e accettare “la fragilità del tempo che ho ritrovato”. Tutto ciò lo si scopre piano piano, nell'anima delle cose che ci guardano, che “sono curiose di noi”, che si attendono da noi l'adamitica facoltà di chiamarle col loro nome. In questo sguardo scambiato, in questo chiamarsi reciproco, si scopre sì un vuoto e una fragilità che appartiene sia a noi che alle cose, ma si scopre anche quella segreta unità che ci fa appartenere tutti a quella saggezza del mondo che ci sostiene e che si riversa su ogni piccolo infinito che siamo e che le cose sono.
Questa opera dello sguardo è un'opera di pazienza che matura piano in una dimensione che viene richiamata in tutta la canzone: la dimensione della solitudine, in cui creare lo spazio di attenzione e rispetto, in cui creare quell'intimità con le cose in cui viene posto l'interrogativo: “Sei tu che mi guardi, oppure lo sguardo è ciò che mi guarda da dentro e possiede i tuoi occhi?”.
Massimiliano
Forse quella “vita che mi va” è una vita in cui si deve imparare non a aggiungere cose a cose, ma a togliere via il superfluo fino a cogliere che “in me c'è un vuoto così d'addio” e accettare “la fragilità del tempo che ho ritrovato”. Tutto ciò lo si scopre piano piano, nell'anima delle cose che ci guardano, che “sono curiose di noi”, che si attendono da noi l'adamitica facoltà di chiamarle col loro nome. In questo sguardo scambiato, in questo chiamarsi reciproco, si scopre sì un vuoto e una fragilità che appartiene sia a noi che alle cose, ma si scopre anche quella segreta unità che ci fa appartenere tutti a quella saggezza del mondo che ci sostiene e che si riversa su ogni piccolo infinito che siamo e che le cose sono.
Questa opera dello sguardo è un'opera di pazienza che matura piano in una dimensione che viene richiamata in tutta la canzone: la dimensione della solitudine, in cui creare lo spazio di attenzione e rispetto, in cui creare quell'intimità con le cose in cui viene posto l'interrogativo: “Sei tu che mi guardi, oppure lo sguardo è ciò che mi guarda da dentro e possiede i tuoi occhi?”.
Massimiliano