Anche se già esiste un topic con questo titolo, ho deciso di aprirne uno ex novo per parlare non del libro in generale ma specificatamente di questa poesia.
E’ da tanto che sto riflettendo su questa poesia. Il fatto che il suo titolo (che è anche il suo penultimo verso) dà il titolo anche a tutto il libro e che sia messa come ultima poesia, come una sorta di sigillo che deve rimanere impresso in chi legge, le dà una importanza particolare.
Mi ha fatto riflettere molto il “tu” cui la poesia si rivolge: si parla di un profilo (“Gli occhi son matite su di te/ a catturare il tuo profilo”: splendida questa immagine dello sguardo che disegna un volto, cogliendone la sua lineare essenza!), del collo, del seno, della schiena… si direbbe dunque una donna, la donna amata, la cui immagine diventa sacra, si fa “Sindone”, “Volto santo” del desiderio (ricordate: “Consacrerò chiese in ogni confronto./ Ma di un amore qual è il sogno che sei” di Eccoti, folle d’amore? C’è la stessa tensione a vedere l’amore come una occasione di passaggio verso un oltre…).
La seconda strofa si fa esortativa: lo sguardo che satura il desiderio e che si è “spalmato” sul corpo della donna ha bisogno di non essere irretito da affanno, inganno, concetti, scrupoli e abitudini. Ha bisogno di libertà.
Intenso mi sembra il verso
Non abituarmi al niente,
se sai che ne ho bisogno.
Perché avere bisogno del niente? Perché non abituarsi al niente? Io ho interpretato questo “niente” come qualcosa di paradossalmente positivo: siamo soliti pensare che il niente sia il non plus ultra del negativo e invece qui il poeta ci spiazza dicendoci (anzi, dicendolo sempre a “lei”) di non abituarsi al niente. Quando la poesia provoca questi cortocircuiti nel pensare comune è grande poesia.
Alda Merini (una poetessa che, a quanto so, piace molto al Nostro) diceva in una intervista: “La poesia è il luogo del nulla, il luogo degli incontri, del fiume che è davanti a casa mia. La poesia è la vita che hai dentro. E non t’importa se la morte o il vicino di casa vengono a turbare te e quello che hai da dire”.
Da qui parte la mia personale interpretazione: è un po’ come per la canzone Io ti vorrei parlare che, come spiega Pino, all’inizio sembrava parole rivolte al padre, poi parole rivolte alla madre, per scoprire infine che erano parole rivolte a se stesso, alla propria anima.
L’interpretazione che qui azzardo è che, essendo l’ultima poesia del libro, si parli non solo di una donna ma della Poesia stessa. Quel “tu” sarebbe dunque anche la Poesia. Una Poesia che assume un volto e un corpo femminile (che possono anche essere, perché no, quelli della donna amata!), una figura sempre inseguita dallo sguardo affinché ne possa catturare qualcosa, l’essenza appunto, che diventa “Sindone”, cioè volto sacro, impresso in quel lenzuolo bianco come il foglio di carta su cui la Parola viene definitivamente impressa. Ed è allora dalla Poesia che il poeta si aspetta la libertà da ogni affanno, inganno, concetto o scrupolo (quasi a dire a noi che leggiamo il libro: “Guardate che in quello che avete letto fino a qui non ci sono concessioni a una falsa retorica; non ho voluto lisciarvi dalla parte del pelo. Ho voluto essere scomodo, in qualche parte pure paradossale e provocatorio, se questo era necessario”). Soprattutto si aspetta di non abituarsi al nulla, luogo di origine e dimora (secondo la Merini) della Poesia stessa: il nulla come “roveto ardente” (scusate la citazione biblica) che arde sempre senza consumarsi. Abituarsi al nulla vorrebbe dire la fine della Poesia perché verrebbe a mancare la scaturigine stessa dell’ispirazione, quel profondo mistero così grande che qualunque discorso su di esso è solo una pallida approssimazione ma anche così piccolo da poter essere incluso in ogni realtà, anche quella che sembra più ovvia, scontata, banale (appunto dice: “Non abituarmi”).
E allora ecco gli ultimi versi, che possono essere anche versi di denuncia, perché la Poesia è anche canto di resistenza:
Nel malamente mondo non ti trovo
e Dio solo sa quanto lottai per questo.
C’è in verità un ostacolo alla Poesia, c’è qualcosa che può offuscare quello sguardo che vuole disegnare il suo profilo: è il “malamente mondo”, è il mondo che non segue la “logica poetica” ma solo il profitto a tutti i costi, la competizione, il potere. E questa seconda logica, la “logica antipoetica”, è talmente invadente, talmente capace di indurire il cuore dentro una scorza quasi invulnerabile che bisogna lottare per cercare e trovare quella Poesia che, di per sé, sarebbe ovunque.
Buona vita a tutti.
d.Max
E’ da tanto che sto riflettendo su questa poesia. Il fatto che il suo titolo (che è anche il suo penultimo verso) dà il titolo anche a tutto il libro e che sia messa come ultima poesia, come una sorta di sigillo che deve rimanere impresso in chi legge, le dà una importanza particolare.
Mi ha fatto riflettere molto il “tu” cui la poesia si rivolge: si parla di un profilo (“Gli occhi son matite su di te/ a catturare il tuo profilo”: splendida questa immagine dello sguardo che disegna un volto, cogliendone la sua lineare essenza!), del collo, del seno, della schiena… si direbbe dunque una donna, la donna amata, la cui immagine diventa sacra, si fa “Sindone”, “Volto santo” del desiderio (ricordate: “Consacrerò chiese in ogni confronto./ Ma di un amore qual è il sogno che sei” di Eccoti, folle d’amore? C’è la stessa tensione a vedere l’amore come una occasione di passaggio verso un oltre…).
La seconda strofa si fa esortativa: lo sguardo che satura il desiderio e che si è “spalmato” sul corpo della donna ha bisogno di non essere irretito da affanno, inganno, concetti, scrupoli e abitudini. Ha bisogno di libertà.
Intenso mi sembra il verso
Non abituarmi al niente,
se sai che ne ho bisogno.
Perché avere bisogno del niente? Perché non abituarsi al niente? Io ho interpretato questo “niente” come qualcosa di paradossalmente positivo: siamo soliti pensare che il niente sia il non plus ultra del negativo e invece qui il poeta ci spiazza dicendoci (anzi, dicendolo sempre a “lei”) di non abituarsi al niente. Quando la poesia provoca questi cortocircuiti nel pensare comune è grande poesia.
Alda Merini (una poetessa che, a quanto so, piace molto al Nostro) diceva in una intervista: “La poesia è il luogo del nulla, il luogo degli incontri, del fiume che è davanti a casa mia. La poesia è la vita che hai dentro. E non t’importa se la morte o il vicino di casa vengono a turbare te e quello che hai da dire”.
Da qui parte la mia personale interpretazione: è un po’ come per la canzone Io ti vorrei parlare che, come spiega Pino, all’inizio sembrava parole rivolte al padre, poi parole rivolte alla madre, per scoprire infine che erano parole rivolte a se stesso, alla propria anima.
L’interpretazione che qui azzardo è che, essendo l’ultima poesia del libro, si parli non solo di una donna ma della Poesia stessa. Quel “tu” sarebbe dunque anche la Poesia. Una Poesia che assume un volto e un corpo femminile (che possono anche essere, perché no, quelli della donna amata!), una figura sempre inseguita dallo sguardo affinché ne possa catturare qualcosa, l’essenza appunto, che diventa “Sindone”, cioè volto sacro, impresso in quel lenzuolo bianco come il foglio di carta su cui la Parola viene definitivamente impressa. Ed è allora dalla Poesia che il poeta si aspetta la libertà da ogni affanno, inganno, concetto o scrupolo (quasi a dire a noi che leggiamo il libro: “Guardate che in quello che avete letto fino a qui non ci sono concessioni a una falsa retorica; non ho voluto lisciarvi dalla parte del pelo. Ho voluto essere scomodo, in qualche parte pure paradossale e provocatorio, se questo era necessario”). Soprattutto si aspetta di non abituarsi al nulla, luogo di origine e dimora (secondo la Merini) della Poesia stessa: il nulla come “roveto ardente” (scusate la citazione biblica) che arde sempre senza consumarsi. Abituarsi al nulla vorrebbe dire la fine della Poesia perché verrebbe a mancare la scaturigine stessa dell’ispirazione, quel profondo mistero così grande che qualunque discorso su di esso è solo una pallida approssimazione ma anche così piccolo da poter essere incluso in ogni realtà, anche quella che sembra più ovvia, scontata, banale (appunto dice: “Non abituarmi”).
E allora ecco gli ultimi versi, che possono essere anche versi di denuncia, perché la Poesia è anche canto di resistenza:
Nel malamente mondo non ti trovo
e Dio solo sa quanto lottai per questo.
C’è in verità un ostacolo alla Poesia, c’è qualcosa che può offuscare quello sguardo che vuole disegnare il suo profilo: è il “malamente mondo”, è il mondo che non segue la “logica poetica” ma solo il profitto a tutti i costi, la competizione, il potere. E questa seconda logica, la “logica antipoetica”, è talmente invadente, talmente capace di indurire il cuore dentro una scorza quasi invulnerabile che bisogna lottare per cercare e trovare quella Poesia che, di per sé, sarebbe ovunque.
Buona vita a tutti.
d.Max