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d.Max » gio mar 03, 2005 4:40 pm
Voglio introdurre una riflessione un po’ trasversale, che ho fatto rileggendo il libro. E’ un argomento un po’ delicato (secondo una striscia di Linus, non c’è argomento più imbarazzante della religione): voglio però che sappiate che lo faccio nel più assoluto rispetto delle convinzioni di ognuno.
In tutto il libro di poesie di Mango c’è un richiamo a una dimensione trascendente, un filo che in trasparenza parla del “fatto religioso”. A Bologna, giustamente, Pino facevo notare che anche l’ateo vive una sua esperienza “religiosa”: può dire di non credere nell’esistenza di Dio, ma non può dire di non credere (per esempio, all’esistenza della Vita!).
Rileggendo le poesie, mi è parso di notare che nelle molte citazioni che vengono fatte di “nozioni” del nostro retroterra cristiano, due sono gli atteggiamenti di fondo: da una parte, il distacco da un certo modo stantio di concepire e vivere la religione come di qualcosa di separato dalla vita, che sa, come si potrebbe dire, di “vecchie sacrestie”; dall’altra, il desiderio di vedere in ogni istante della vita quotidiana, in ogni segmento di realtà, qualcosa che è “santo” (questo aggettivo ricorre spesso nel libro!).
Quando si parla di “esperienza spirituale”, di ricerca della trascendenza, ordinariamente si pensa a una dimensione della realtà separata dal “mondo materiale” e a cui bisogna elevarsi con chissà quali tecniche ascetiche. Invece la poesia (e anche la poesia del Nostro) è lì a indicarci che non si tratta di dare la scalata al cielo ma, piuttosto di vivere ogni cosa a partire da una sorgente interna: quell’atteggiamento della poesia che si abbassa verso le realtà più semplici, un fiore, una brezza di vento, uno sguardo, un bacio per renderle tracce di un momento sacro, secondo me, è la vera esperienza religiosa.
Perché l’essenza della religione non è credere che esista Dio: se, per assurdo, la scienza domani arrivasse alla dimostrazione che Dio esiste, ciò non renderebbe obsoleta la religione. Poiché essenza della religione è il rapporto dell’uomo con la sua esperienza. Il problema della religione non è la teologia o la morale, ma è rispondere a questa domanda: come posso imparare ad amare la vita, in tutte le sue espressioni? Come imparare ad amare ciò che sono e sento ora, senza cadere nella trappola di volermi diverso, “migliore”?
L’immagine bella che ci dà la poesia “A volo d’aquila”, di uno sguardo proveniente dalla lontananza e che si “perde nei nostri occhi”, di un “rimpianto” presente nel nostro cuore, penso che offra la prospettiva giusta. Cioè, non quella di un uomo che deve innalzarsi chissà a quali vette, ma di un Dio che “a volo d’aquila” scende fra di noi, rinasce ogni Natale per morire in ogni affanno quotidiano. Un Dio estremamente delicato e cortese, che accoglie anche il rifiuto dell’uomo (“mi inabisso,/ tra gente…/ dove alcun Dio ha mai trovato posto”).
Eppure io, lì,
mi fermerò lo stesso.
Buona vita a tutti.
d.Max