I cieli delle cose son qui,
dentro alle nostre case.
Li sentiamo respirare
e di tanto in tanto
scivolare sulle nostre movenze.
Non è la prima volta che una poesia di Mango diventa preludio di una sua perla musicale. E anche ieri sera, quando nel silenzio del mio appartamento mi sono ritrovata a rileggere questi versi, essi inevitabilmente si sono riagganciati al suono di altre parole:
Da solo mi va
di starmene un po’
da solo perché
non c'è un vero perché
allora mi va
lo sguardo mi va
verso le cose che aprono
gli occhi verso di me
(…) guardo le cose
che sono tutte
curiose di me
con loro nome
chiamo le cose
che chiamano me
Il contesto di solitudine e di raccoglimento era già qui uno stato comune al mio, lo sguardo che si soffermava su ciò che nella stanza lo circondava anche. E lo si ritrovava di rimando nella poesia che avevo tra le mani e nei successivi agganci canori. Il curioso è che “I cieli delle cose” appartiene alla raccolta di Pino "Di quanto stupore" pubblicato nel 2007, mentre “Chiamo le cose” è inserito nell’album “La terra degli aquiloni” del 2011 e qui il testo porta la firma di Pasquale Panella.
Eppure la traccia appare essere inequivocabilmente la stessa, quell’interazione tra il nostro essere e le cose che ci circondano, in un riconoscimento di vita propria e capacità percettiva anche agli oggetti, costruiti per mano dell’uomo, modellati, forgiati e spesso scelti come testimoni del nostro agire quotidiano ma a cui concediamo un loro vissuto insieme a una propria natura respirante a tutti gli effetti; in un porli così in un sensoriale tutt’uno con l’umano e l’universo. Direi che in “Chiamo le cose” questo concetto viene ulteriormente sviluppato, dando ancor più marcata reciprocità e scambievolezza tra le forze in causa.
E in un passo ulteriore si potrebbe cogliere, volendo, anche uno stato di noncuranza con il quale di tanto in tanto lasciamo che quegli sguardi che ci circondano, magari curiosi e che partecipano al nostro vivere, scivolino sulle nostre movenze (“I cieli delle cose”)
E quanto invece li cerchiamo e vi rispondiamo quando lo stato d’animo diventa più nostalgico, quando “non c’è un vero perché” se non una prova empirica sensoriale (“Chiamo le cose”)
E’ come se nel componimento poetico si traducesse una legge fisica.
E’ come se nel testo della canzone se ne desse la dimostrazione.
Ieri sera nel silenzio del mio appartamento ne ho sfiorato i contorni, i ricordi, lo sguardo e il respiro: inconfutabile prova sensoriale che ne avalla l'intreccio.
dentro alle nostre case.
Li sentiamo respirare
e di tanto in tanto
scivolare sulle nostre movenze.
Non è la prima volta che una poesia di Mango diventa preludio di una sua perla musicale. E anche ieri sera, quando nel silenzio del mio appartamento mi sono ritrovata a rileggere questi versi, essi inevitabilmente si sono riagganciati al suono di altre parole:
Da solo mi va
di starmene un po’
da solo perché
non c'è un vero perché
allora mi va
lo sguardo mi va
verso le cose che aprono
gli occhi verso di me
(…) guardo le cose
che sono tutte
curiose di me
con loro nome
chiamo le cose
che chiamano me
Il contesto di solitudine e di raccoglimento era già qui uno stato comune al mio, lo sguardo che si soffermava su ciò che nella stanza lo circondava anche. E lo si ritrovava di rimando nella poesia che avevo tra le mani e nei successivi agganci canori. Il curioso è che “I cieli delle cose” appartiene alla raccolta di Pino "Di quanto stupore" pubblicato nel 2007, mentre “Chiamo le cose” è inserito nell’album “La terra degli aquiloni” del 2011 e qui il testo porta la firma di Pasquale Panella.
Eppure la traccia appare essere inequivocabilmente la stessa, quell’interazione tra il nostro essere e le cose che ci circondano, in un riconoscimento di vita propria e capacità percettiva anche agli oggetti, costruiti per mano dell’uomo, modellati, forgiati e spesso scelti come testimoni del nostro agire quotidiano ma a cui concediamo un loro vissuto insieme a una propria natura respirante a tutti gli effetti; in un porli così in un sensoriale tutt’uno con l’umano e l’universo. Direi che in “Chiamo le cose” questo concetto viene ulteriormente sviluppato, dando ancor più marcata reciprocità e scambievolezza tra le forze in causa.
E in un passo ulteriore si potrebbe cogliere, volendo, anche uno stato di noncuranza con il quale di tanto in tanto lasciamo che quegli sguardi che ci circondano, magari curiosi e che partecipano al nostro vivere, scivolino sulle nostre movenze (“I cieli delle cose”)
E quanto invece li cerchiamo e vi rispondiamo quando lo stato d’animo diventa più nostalgico, quando “non c’è un vero perché” se non una prova empirica sensoriale (“Chiamo le cose”)
E’ come se nel componimento poetico si traducesse una legge fisica.
E’ come se nel testo della canzone se ne desse la dimostrazione.
Ieri sera nel silenzio del mio appartamento ne ho sfiorato i contorni, i ricordi, lo sguardo e il respiro: inconfutabile prova sensoriale che ne avalla l'intreccio.