Rainer Maria Rilke, nella sua Lettera a un giovane poeta, consiglia di non scrivere poesie d’amore perché rischierebbe di essere retorico e perché esiste già un’ottima tradizione di poesia amorosa, dove l’amore sarebbe già stato declinato in tutti i suoi aspetti. Allora, non c’è più niente di nuovo da scrivere sull’amore? Penso che il secondo libro di poesie di Mango dimostri proprio il contrario.

Certo, per scrivere qualcosa di nuovo su questo argomento così abusato è necessario rifarsi non alla tradizione poetica europea, a costo di sacrificare, in questa esclusione, anche la prospettiva romantica sull’amore: quella prospettiva cioè che dilata e gonfia l’oggetto dell’amore, in cui l’amata diventa tutto, ma in realtà questo tutto non è altro che la proiezione del proprio io. Questo sentimentalismo che assorbe l’altro riducendolo a sé, è l’aspetto deleterio di ogni romanticismo: l’altro è solo un’occasione per ampliare e arricchire, come se si fosse in una camera di accelerazione di particelle subatomiche, la propria “radioattività” sentimentale. Mi sembra che Mango non sia affatto su questa linea.
Il fatto che il suo punto di riferimento sia, come dice lui stesso, Neruda (ma secondo me c’è anche il mondo immaginoso, salino e gocciolante di Elytis) gli permette di “bypassare” con un sol balzo tutta la tradizione europea (e italiana), con le sue complicazioni e i suoi eccessi.
Mango parla di amore, senz’altro: ma l’oggetto dell’amore, la cosa amata, non è, per l’appunto, solo una cosa, solo un oggetto manipolabile a piacimento. E’ una realtà, una dimensione a tutto tondo, che ha una profondità e una sua intensità, e dunque anche una sua irriducibile opacità. Non è solo il ricettacolo di tutte le proiezioni dell’io amante e poetante, ma è una presenza che pone le sue esigenze di riconoscimento. E l’atteggiamento in cui si pone l’autore è quello dell’ascolto di tali esigenze: in tale atteggiamento l’io non avvolge l’altro con le proprie analogie e metafore, ma si lascia (come dice in Nel buon confronto) “offendere e incantare”, stupire dalla sua presenza.
Questo atteggiamento mi sembra che produca una “tecnica” poetica: le immagini che la fantasia propone non sono sotto l’insegna della similitudine, dell’analogia e della metafora, in cui alla fine uno dei due termini assorbe l’altro. Ma sono invece sempre immagini che si sovrappongono e si intrecciano, si inseguono e germinano l’una dall’altra, come in una “matrioska”. Allora, un motivo umano è accanto a un motivo naturale e viceversa; l’io si scambia continuamente con il tu e viceversa, lo spazio con il tempo, l’interiore con l’esteriore. Tutto ciò dà un senso di grande fisicità alle immagini, ma anche allude sempre a un “oltre” che per la ragione è indisponibile e inattingibile (senza però che tale situazione metta la ragione a disagio!).

Un altro merito di questa poesia di Mango è che le poesie si capiscono da sé: in ciascuna di esse ci sono tutti gli elementi (nessuno in più, cioè ridondante, ma neanche nessuno in meno, cioè ermetico) per entrare nel loro mondo: non è sopportabile, infatti, a mio parere quella poesia in cui, per capire qualcosa, bisogna leggere prima una ventina di pagine di introduzione!
Questo è anche indice di una grande fiducia che Mango ha nella parola, nel suo potere espressivo di suono e di senso. E’ quella parola che, come ho detto sopra, propone una ricca sovrapposizione di motivi diversi, una continua dilatazione degli opposti, con un “effetto rimbalzo” che ricade sempre nel cuore di chi legge e ascolta interiormente questi versi.
E qui sta il punto più prezioso: l’insieme di questa tecnica poetica non dà un risultato “manieristico”, mai. Diventa invece l’ambiente, il clima, l’atmosfera in cui viene evocata l’emozione. Una parola che incita all’emozione: questo potrebbe essere alla fine, se mi posso permettere, l’intento e il senso, riusciti, della poesia di Mango.

Buona vita a tutti

d.Max