Le parole sono importanti: trasmettono informazioni, esprimono e comunicano le nostre evidenze interiori. In questa poesia la frase
le parole tue son abiti da sposa
e le virgole veli poggiati al sagrato
che ritorna all’inizio e alla fine, come un abbraccio, ci dicono qualcosa di più: le parole potrebbero essere anche i contenitori di una promessa, di una promessa di amore. Dico “potrebbero” perché, lungo la poesia (per lo meno, così io l’ho reimmaginata) sembra che manchino a tale promessa. E allora, il ripetere quella frase anche alla fine mi suona quasi come una preghiera o, almeno una speranza.
Subito si capisce infatti che quelle “parole tue” chiudono più che aprire: “proteggono un senso di perduto”, e quanto fascino c’è in questa espressione ma anche quanta malinconia e nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto esserci e non c’è stato. E questo senso del perduto diventa pianto da cui nasce una lebbra, questa esperienza di lenta e inesorabile consunzione della carne, quasi una anticipazione cosciente del morire, che scompone (decompone?) i pensieri.
Da qui partono due lunghe domande, che terminano con il medesimo verso:
trascurasti d’amore, un minuto per me?
che è il dubbio finale che “rimane sulle mie ginocchia”, come accoccolato, dopo l’eccedenza di parole (“Tu parli, parli”) dei versi che precedono. Queste parole possono essere un ammaliante “canto delle Sirene”, o addirittura un epinicio (era un canto di vittoria che nella Grecia classica veniva composto in onore dei vincitori dei giochi olimpici), oppure, più umilmente un’epitasi (penso che vi sia un errore e che si voglia dire epitesi, che è il suono che a volte, soprattutto noi toscani, aggiungiamo ad alcune parole: p. es. *lapisse per *lapis): comunque sia si tratta di un’eccedenza che non capisce una esigenza di amore. Parole, parole che assumono la fissità medusea e di pietra della morte (“Severo sepolcro della fissità di sguardo/ di statue già morte”), che deprimono l’orizzonte e pongono un impedimento invalicabile (“linee d’orizzonte abbassate/ e cancelli possenti”). Eppure si sa che c’è un affollamento di “bianco e di scuro”: come è esatta questa parola, “scuro”. Non si dice “affollato di bianco e di nero”, dove, per lo meno, la polarità degli opposti che si definiscono a vicenda, offrirebbe un appiglio al concetto; ma si dice “affollato di bianco e di scuro”, dove quella parola crea una zona d’ombra, di incerta oscurità, di assenza di colore, che fa rimanere sospesi. Ed è proprio in questo senso di sospensione che si innesta il bisogno d’amore e dove la trascuratezza di un solo minuto di non-amore è una ferita quasi mortale. E allora, possono le parole nella loro eccedenza colmare un tale bisogno o, a volte, sono solo un alibi per sfuggire alla promessa di amare?
Buona vita a tutti
d.Max
le parole tue son abiti da sposa
e le virgole veli poggiati al sagrato
che ritorna all’inizio e alla fine, come un abbraccio, ci dicono qualcosa di più: le parole potrebbero essere anche i contenitori di una promessa, di una promessa di amore. Dico “potrebbero” perché, lungo la poesia (per lo meno, così io l’ho reimmaginata) sembra che manchino a tale promessa. E allora, il ripetere quella frase anche alla fine mi suona quasi come una preghiera o, almeno una speranza.
Subito si capisce infatti che quelle “parole tue” chiudono più che aprire: “proteggono un senso di perduto”, e quanto fascino c’è in questa espressione ma anche quanta malinconia e nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto esserci e non c’è stato. E questo senso del perduto diventa pianto da cui nasce una lebbra, questa esperienza di lenta e inesorabile consunzione della carne, quasi una anticipazione cosciente del morire, che scompone (decompone?) i pensieri.
Da qui partono due lunghe domande, che terminano con il medesimo verso:
trascurasti d’amore, un minuto per me?
che è il dubbio finale che “rimane sulle mie ginocchia”, come accoccolato, dopo l’eccedenza di parole (“Tu parli, parli”) dei versi che precedono. Queste parole possono essere un ammaliante “canto delle Sirene”, o addirittura un epinicio (era un canto di vittoria che nella Grecia classica veniva composto in onore dei vincitori dei giochi olimpici), oppure, più umilmente un’epitasi (penso che vi sia un errore e che si voglia dire epitesi, che è il suono che a volte, soprattutto noi toscani, aggiungiamo ad alcune parole: p. es. *lapisse per *lapis): comunque sia si tratta di un’eccedenza che non capisce una esigenza di amore. Parole, parole che assumono la fissità medusea e di pietra della morte (“Severo sepolcro della fissità di sguardo/ di statue già morte”), che deprimono l’orizzonte e pongono un impedimento invalicabile (“linee d’orizzonte abbassate/ e cancelli possenti”). Eppure si sa che c’è un affollamento di “bianco e di scuro”: come è esatta questa parola, “scuro”. Non si dice “affollato di bianco e di nero”, dove, per lo meno, la polarità degli opposti che si definiscono a vicenda, offrirebbe un appiglio al concetto; ma si dice “affollato di bianco e di scuro”, dove quella parola crea una zona d’ombra, di incerta oscurità, di assenza di colore, che fa rimanere sospesi. Ed è proprio in questo senso di sospensione che si innesta il bisogno d’amore e dove la trascuratezza di un solo minuto di non-amore è una ferita quasi mortale. E allora, possono le parole nella loro eccedenza colmare un tale bisogno o, a volte, sono solo un alibi per sfuggire alla promessa di amare?
Buona vita a tutti
d.Max